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Discussioni
Giovanni
Vitolo
Non è di nuovo la solita storia
2003 - Giovanni Vitolo
Il presente
saggio fa riferimento all'intervento di Ivo Mattozzi, Pensare la
nuova storia da insegnare, in "Società e storia"
n. 98, 2002 (XXV), pp. 787-814 e apparirà nel prossimo numero
della stessa rivista. L'autore e la direzione della rivista ne hanno
consentito un'anticipazione su Reti Medievali.
Pur
essendo io oggettivamente, per i motivi che risulteranno chiari più
avanti, il principale bersaglio polemico del saggio di Ivo Mattozzi
sull'insegnamento della storia, comparso nel numero precedente di
questa rivista, non esito a definire il suo intervento quanto mai
opportuno e utile in questa fase delicata dell'avvio della riforma
della scuola, voluta dall'attuale governo in contrapposizione con
quella varata dai governi dell'Ulivo con i ministri Luigi Berlinguer
e Tullio De Mauro, ma bloccata al momento della sua partenza, all'inizio
dell'estate del 2001, dal nuovo ministro Letizia Moratti: intervento
utile perché, contrariamente a quello che pensa Mattozzi, ritengo
che conservi ancora oggi tutta la sua attualità il mio appello
affinché "nessun dorma", rivolto agli storici nel
febbraio del 2001. In altri termini, per quanto riguarda l'insegnamento
della storia, non potevamo dormire sonni tranquilli con i governi
dell'Ulivo, non possiamo farlo ora e forse non potremo farlo mai.
Tanto vale perciò ragionare con calma e bandire i toni apocalittici
e ogni forma di esasperazione, che portano fuori strada e non aiutano
a risolvere i problemi.
Gli storici che hanno dedicato negli ultimi anni e dedicano tuttora
particolare attenzione al problema dell'insegnamento della storia
(per indicare i quali userò di qui in avanti per comodità
la definizione, peraltro oggi abbastanza diffusa, di didatti della
storia) hanno ragioni da vendere quando denunciano:
a) i risultati deludenti dell'insegnamento così come oggi viene
per lo più praticato;
b) lo scarso interesse degli storici di mestiere per la preparazione
dei futuri docenti;
c) la solitudine in cui si trovano ad operare i docenti di scuola,
schiacciati tra la prescrittività dei programmi ministeriali,
il disinteresse degli studenti e lo scarso numero di ore a disposizione.
Né si può dare loro torto quando rivendicano il merito
di avere avviato molteplici forme di sperimentazione e di avere svolto
un ruolo attivo all'interno della Commissione di 260 esperti creata
da De Mauro nel giugno del 2000 per la messa a punto del programma
di riordino dei cicli di istruzione: furono essi infatti ad elaborare,
nell'ambito del gruppo di lavoro per la storia, la geografia e le
scienze sociali coordinato da Dario Antiseri, un progetto organico
di riorganizzazione dell'insegnamento della storia basato sul superamento
della tradizionale triplice ricorsività in senso cronologico
dalla preistoria all'età contemporanea (alle scuole elementari,
alle medie e alle superiori), che essi avrebbero voluto sostituire,
nell'ambito dei due cicli previsti dalla riforma Berlinguer-De Mauro
(scuola di base e scuola secondaria), con tre tipi di studio ben differenziati:
a) quadri di società (società di raccoglitori e cacciatori,
società agricole e pastorali, società industriali e
postindustriali), da studiare al terzo e al quarto anno della scuola
di base,
b) storia generale in senso cronologico-lineare dall'Antichità
al Novecento e con una prospettiva di storia mondiale (cinque anni,
corrispondenti agli ultimi tre della scuola di base e ai primi due
della secondaria),
c) moduli tematici (ultimi tre anni della scuola secondaria).
La loro proposta non era improvvisata, ma aveva alle spalle sia una
fase lunga e meritoria di sperimentazione, condotta attraverso gli
Istituti di storia della Resistenza, alcune sedi regionali dell'IRRSAE
e associazioni di varia natura e ispirazione, sia la recente esperienza
degli istituti professionali, nei quali già dal 1997 vige un
ordinamento ispirato agli stessi principi e circolano libri di testo
che danno un'idea chiara di quello che secondo i riformatori della
commissione avrebbe dovuto essere l'insegnamento della storia in tutti
gli altri ordini di scuola. Ma proprio questi libri di testo e i risultati
deludenti (secondo alcuni catastrofici) conseguiti negli istituti
professionali, nei quali quelli che eufemisticamente possono essere
definiti approfondimenti si sono concentrati, come era prevedibile,
su temi di storia contemporanea, unitamente al carattere a dir poco
pasticciato del primitivo testo ministeriale pervenuto alla stampa,
provocarono una spontanea e convergente presa di posizione da parte
di storici di diversa formazione e orientamento politico, ma animati
da passione civile e da vivo interesse per le sorti della nostra scuola,
i quali, con il documento Insegnamento della storia e identità
europea, meglio noto come "Manifesto dei 33", e con interventi
su vari giornali espressero all'allora ministro De Mauro tre preoccupazioni:
a) che l'apertura ad una visione mondiale dello sviluppo storico,
di per sé un fatto positivo, potesse essere attuata in modo
da non valorizzare appieno l'identità italiana ed europea,
ma appiattendo le diversità di valori e conquiste civili;
b) che il troppo poco spazio lasciato al mondo greco-romano e a quello
medievale, studiati una sola volta all'età di dieci anni e
messi sullo stesso piano delle civiltà dell'Africa subsahariana
e dell'Amazzonia, creasse un vuoto nella preparazione culturale di
giovani che vivono in un contesto, quello italiano, fortemente segnato
nel paesaggio e nella cultura dal retaggio di quelle età;
c) che i generici approfondimenti del triennio finale della Secondaria
non fossero sufficienti ad integrare il quadro concettuale e cronologico
acquisito attraverso lo studio della storia fatto all'età di
10-14 anni nella scuola di base, portando all'appiattimento su una
contemporaneità priva di spessore storico.
Il
ministro invitò i contestatori a passare dal fronte del rifiuto
all'elaborazione di un progetto organico alternativo, impegnandosi
a tenerlo in debito conto soprattutto in vista del passaggio successivo
della riforma, vale a dire la definizione dei programmi della scuola
secondaria: cosa che fu fatta ad opera di nove di quei sottoscrittori,
che ne affidarono a me la stesura materiale, per la quale si rivelò
molto prezioso il materiale raccolto da Girolamo Arnaldi al tempo
della Commissione Brocca. Alcuni di loro, inoltre, vale a dire lo
stesso Arnaldi, Massimo Firpo, Paolo Prodi, Marco Tangheroni e chi
scrive, furono inseriti per l'occasione nella commissione ministeriale
, che fu potenziata nel suo complesso, passando da 260 a 350 membri,
e che si riunì l'ultima volta a Fiuggi nell'aprile del 2001,
circa un mese prima della fine della legislatura e della cancellazione
dell'intero progetto di riforma Berlinguer-De Mauro. In quell'occasione,
alla presenza dello stesso De Mauro, di Antiseri e dei vertici del
Ministero, le distanze tra i "tradizionalisti" (come ci
chiama Mattozzi) e gli "innovatori" (tra i quali era assente
in quell'occasione Mattozzi) si ridussero alquanto attraverso un lungo
e animatissimo confronto, che portò all'individuazione di alcuni
correttivi, destinati ad essere introdotti in sede di attuazione della
riforma, che intanto sarebbe partita nel settembre di quell'anno con
il solo biennio del primo ciclo, che non prevedeva (come non prevede
tuttora) l'insegnamento della storia, mentre era ancora da varare
il progetto per il secondo ciclo, quello della scuola secondaria.
Gli accordi allora raggiunti, che non sono stati mai ufficializzati
e che ora per la prima volta ho l'opportunità di rendere noti
ad un più largo pubblico, erano i seguenti:
a) attenuazione del carattere prevalentemente sociologico dei cosiddetti
quadri di società, con l'introduzione di una chiara prospettiva
storica, in modo da evitare il rischio di assimilare società
assai lontane tra loro nel tempo e nello spazio e che avevano in comune,
nel caso di quelle etichettate come agricole e pastorali, solo l'esistenza
di pastori e contadini;
b) apertura alla dimensione mondiale della storia, ma senza eliminazione
della prospettiva eurocentrica, bensì con l'obiettivo della
costruzione di molteplici identità: locale, regionale, nazionale,
europea, mondiale;
c) maggiore spazio nel quinto anno della scuola di base al mondo greco-romano
e a quello medievale, mediante un'anticipazione al precedente biennio
dello studio delle civiltà più antiche;
d) approfondimenti tematici nel triennio finale destinati a questioni
di grande rilevanza storiografica e non schiacciate sulla contemporaneità,
ma trattate con taglio diacronico dall'antichità ai nostri
giorni.
Il cambio di governo ha mutato lo scenario complessivo, determinando
da parte dell'attuale ministro e dei suoi collaboratori, tra i quali
- stia tranquillo Mattozzi - non c'è nessuno dei nove estensori
del progetto alternativo a quello del gruppo di lavoro Antiseri, un
vivo interesse proprio per il nostro progetto, che così è
riemerso dal naufragio della Commissione De Mauro, per cui chi scrive
si è sentito in dovere, pur essendo lontanissimo dall'attuale
maggioranza di governo, di accettare l'invito della Moratti ad entrare
a far parte della nuova commissione di 265 membri da lei creata. Basta
questo a farmi dormire sonni tranquilli? Purtroppo no, perché
negli ultimi due anni si è registrato un calo di tensione ideale
intorno alla riforma della scuola e risulta più difficile individuare
i propri interlocutori, essendo ora aumentato il peso esercitato dai
partiti di governo, attraverso i loro responsabili di settore, rispetto
a quello dei consulenti e dei membri della commissione ministeriale,
la quale è stata finora impegnata nella sola definizione del
profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine
del primo e del secondo ciclo di istruzione. Non è ancora chiaro
perciò se e come i suoi membri avranno una qualche parte nella
stesura dei documenti ministeriali, e forte è il rischio che
le indicazioni contenute nel nostro progetto del 2001 siano banalizzate
e depotenziate dei loro elementi innovativi, che non sono pochi, checché
ne dica Mattozzi.
E a questo punto, esaurita sbrigativamente, ma, spero, in maniera
sostanzialmente corretta, la ricostruzione di quanto è avvenuto
nel recente passato, è necessario entrare nel merito delle
questioni di sostanza sollevate da Mattozzi e che ci devono vedere
tutti impegnati, tradizionalisti e non ("nessun dorma",
appunto), nel mettere a frutto le discussioni e le esperienze di questi
ultimi due anni. Che ci siano ora tutte le condizioni per procedere
in questa direzione, è dimostrato dalla comparsa nella primavera
di quest'anno di un volume di Silvana Anna Bianchi e Cinzia Crivellari,
dal titolo Nessun tempo è mai passato. La mediazione didattica
tra storia esperta e storia insegnata (Roma, Armando editore,
2003), esemplare per equilibrio, chiarezza espositiva e ragionevolezza
delle proposte: volume che mette pienamente a frutto sia quello che
è stato scritto e fatto finora dai didatti della storia sia
quanto è stato realizzato dalle due autrici nella loro esperienza
di docenti di scuola superiore, di studiose di storia veneta e di
docenti nella Scuola di specializzazione per la formazione degli insegnanti
della Scuola Secondaria del Veneto.
Partendo dal presupposto che la riforma della scuola non sarà
fatta ad ogni cambio di maggioranza politica e che quindi i due cicli
di insegnamento della storia con taglio cronologico previsti dal progetto
Moratti (entrambi di cinque anni: il primo, coincidente con gli ultimi
due anni della scuola elementare e con i tre della media; il secondo
coincidente con i cinque della scuola secondaria) dureranno per un
bel po', si tratta di discutere e di addivenire ad una proposta largamente
condivisa tra storici e insegnanti di storia su come caratterizzarli,
per evitare, da un lato, un'impostazione troppo eurocentrica e ogni
forma di forzatura nella ricerca dei fattori e delle ragioni che hanno
fatto l'Europa, e dall'altro una ripetitività, che è
generatrice di noia e quindi di disinteresse da parte degli studenti.
Innanzitutto i due cicli da noi proposti hanno impostazione e carattere
molto diversi, per cui ricorsività non significa ripetitività.
Come abbiamo scritto, nel primo ciclo l'obiettivo primario è
lo sviluppo nei ragazzi della capacità di:
- cogliere i segni che le varie epoche hanno lasciato nel paesaggio
urbano e rurale, e quindi la diversità degli impianti urbanistici,
delle tecniche costruttive e degli stili architettonici, in modo che
le diverse epoche siano istintivamente identificabili con determinati
edifici e strutture urbane (l'impianto ortogonale della città
greco-romana, quello vario e a volte intricato della città
medievale, i grandi assi di penetrazione dell'età moderna e
contemporanea);
- collocare fatti, personalità e fenomeni nel tempo e nello
spazio, al di fuori dei quali sono privi di senso;
- riconoscere in fatti e fenomeni anche lontani nello spazio e nel
tempo nessi ricorrenti e strutture durevoli nonché la molteplicità
dei tempi storici.
Per rendere possibile il raggiungimento di questo obiettivo, abbiamo
individuato come indispensabile sul piano didattico un'organica connessione
tra il tradizionale metodo narrativo e gli strumenti forniti da discipline
quali la geografia, l'antropologia, l'archeologia e la storia dell'arte.
Nel secondo ciclo, quello coincidente con la scuola secondaria (che
sarà articolata in otto licei), a queste discipline pensiamo
che si debbano aggiungere la sociologia, l'economia, il diritto e
la politologia. Nello stesso tempo si dovrà curare con particolare
attenzione il raccordo con l'insegnamento della letteratura, della
filosofia e della geografia; e ciò a prescindere dal collegamento
che, attraverso le nuove classi di concorso, si farà della
storia con l'italiano, la filosofia o la geografia. L'obiettivo principale
dello studio della storia diventa infatti nel secondo ciclo la conoscenza
dei caratteri delle società che hanno prodotto le testimonianze
che lo studente ha imparato a cogliere e a collocare nel tempo e nello
spazio. La scuola secondaria è, inoltre, il momento in cui
l'approccio al sapere storico si avvicina di più al metodo
scientifico proprio degli storici, per cui, da un lato, si dovrà
far leva sull'idea della storia-problema, attraverso l'individuazione
di grandi questioni capaci di suscitare la curiosità e l'interesse
dei ragazzi, dall'altro si dovrà mirare all'acquisizione della
consapevolezza del carattere complesso e quindi problematico del dato
storico, la cui comprensione richiede un adeguato sviluppo dello spirito
critico, inteso come capacità di formulare un giudizio personale.
In questa fase della sua formazione (e non in quella precedente) lo
studente dovrà essere messo in grado di accedere anche al piano
delle interpretazioni storiografiche, attraverso la lettura di opere
particolarmente significative e il confronto delle varie forme di
informazione.
Come si vede, ricorsività e approfondimenti tematici non sono
affatto incompatibili, e soprattutto non si caratterizzano in senso
ideologico, come se la ricorsività fosse di destra e i moduli
tematici di sinistra. Per impostare correttamente il problema, è
necessario partire da alcuni punti fermi e da una considerazione realistica
della scuola italiana, di cui gli "innovatori" non mi sembra
che abbiano una adeguata conoscenza, dato che scambiano le punte di
eccellenza costituite dai docenti più impegnati e desiderosi
di sperimentare strade nuove con la condizione dell'insieme del corpo
docente. Come giustamente hanno osservato le autrici del volume dianzi
citato, "il mondo della scuola continua ad essere un universo
estremamente variegato, nel quale, accanto a insegnanti "di qualità"
che concepiscono la loro pratica didattica come continua ricerca disciplinare
e metodologica, sopravvivono sacche di conservazione e di acritico
rifiuto di ogni innovazione". I miei figli, che hanno studiato
in scuole pubbliche, hanno conosciuto docenti di valore assai ineguale,
anche se tutti percettori dello stesso stipendio: alcuni "di
qualità", altri mediocri, altri pessimi, che mai avrebbero
dovuto mettere piede in una scuola sia perché del tutto inadatti
a svolgere attività educativa sia perché dotati di una
conoscenza molto approssimativa delle discipline che avrebbero dovuto
insegnare. Anch'io li ho conosciuti bene, perché ho sempre
creduto e credo tuttora nell'importanza del rapporto scuola-famiglia,
e penso a loro quando leggo gli esempi assai belli di modulo proposti
da Bianchi e Crivellari e da altri eccellenti docenti che credono
nel loro lavoro e lo fanno bene, come ad esempio quelli che hanno
il loro punto di riferimento nella rivista "Linea Tempo"
e che hanno raccolto le loro esperienze nel volume La storia nella
scuola. Ricerca storica ed esperienze didattiche (a cura di S.
Carmo, Genova-Milano, Marietti, 2002).
Un insegnamento per moduli tematici così come vengono esemplificati
nei volumi fin qui citati e nei tanti scritti dei didatti della storia
presuppone un impegno di progettazione e una disponibilità
di mezzi (soprattutto libri, riviste, giornali), che nella maggioranza
dei casi non esistono in misura adeguata. Moltissimi docenti di storia
non hanno né la preparazione sufficiente né, quello
che è più grave, la passione necessaria per superare
le tante difficoltà che soprattutto in determinate aree del
nostro paese sorgono quando si cercano libri, spazi adeguati, strumenti
di lavoro. La cosa evidentemente non spaventa Mattozzi, il quale lascia
intendere chiaramente alla fine del suo saggio che in loro soccorso
verrebbe l'industria editoriale, che, oltre ai manuali, produrrebbe
volumetti con temi di approfondimento (e infatti nella primavera del
2001 si diceva che una casa editrice ne avesse già pronti sei
per ogni anno di scuola): volumetti rispetto ai quali in non pochi
casi docenti e studenti finirebbero con il porsi in un atteggiamento
passivo (lezione frontale e relativo apprendimento mnemonico) non
diverso da quello che viene denunciato come indotto dal manuale, per
cui anche quelli che dovrebbero essere strumenti didattici destinati
a sviluppare lo spirito critico finirebbero con l'essere considerati
depositari della verità. Di conseguenza: niente enucleazione
spontanea dei problemi dalle fonti da parte dei discenti, niente collegamento
con la realtà del territorio, ma solo disposizione diversa
della materia e approfondimento di temi in qualche maniera già
presenti nel manuale; il tutto condito con il classico confronto di
tesi storiografiche sull'argomento, peraltro già in auge nei
buoni licei degli inizi degli anni Sessanta, nei quali circolavano,
accanto ai manuali, le antologie di critica storica di Armando Saitta
e Carmelo Bonanno.
La soluzione allora non è quella di imporre a tutti i docenti
quello che non possono o non vogliono fare, ma elaborare una proposta
veramente realizzabile e per giunta più aderente alla scuola
dell'autonomia che si dice di voler promuovere, ma che poi tutti,
dal ministro di turno agli innovatori, fanno a gara per vanificare,
ponendo ad essa vincoli di ogni genere: una proposta che consenta,
da un lato, di continuare con la tradizionale lezione frontale integrata,
come avviene già oggi in tanti casi, con ricerche legate alla
realtà del territorio e ai problemi del presente, dall'altro
di organizzare un insegnamento per moduli, ma disposti su lunghi archi
temporali e suscettibili di aprire "spiragli di intelligibilità"
su realtà più ampie, a voler adoperare una espressione
coniata da Gabriella Rossetti nell'ambito di quella che i didatti
chiamano "storia esperta" (per distinguerla da quella insegnata
a scuola) e della quale faccio ormai da tempo un largo uso.
Nel progetto presentato al ministro De Mauro indicavamo molti temi,
tra i quali mi piace ricordare in questa sede quello dei "caratteri
e trasformazioni dei ceti dirigenti": un tema che consentirebbe
di muoversi su un lungo o lunghissimo (a seconda degli interessi del
docente) arco cronologico, recuperando nello stesso tempo anche elementi
importanti di storia economica, culturale e religiosa. Un tema che
può anche configurarsi non come modulo specifico, ma come semplice
filo conduttore dello studio della storia su un lungo arco cronologico
e intorno al quale costruire un progetto che coinvolga anche i docenti
di altre discipline, quali la letteratura (greca, latina, italiana,
straniera), la filosofia, la religione.
Ma a tal riguardo c'è, o potrebbe esserci, una novità
di grande interesse. Sta emergendo, infatti, proprio in questi giorni
nella cerchia dei collaboratori del ministro Moratti la tendenza a
rafforzare, nell'ambito dei licei, il carattere del quinto anno come
anno di raccordo con la fase successiva di formazione (universitaria
e non) e quindi dotato di una propria configurazione autonoma sul
piano didattico. Ebbene esso, per quanto riguarda la storia, potrebbe
essere organizzato proprio sulla base dell'insegnamento per moduli
e privilegiando due elementi caratterizzanti:
a) ampio sviluppo cronologico, in modo da riprendere e approfondire
argomenti trattati all'inizio del percorso liceale;
b) collegamento stretto con il tipo di liceo, per cui, ad esempio,
allo scientifico e al tecnologico si potrebbe puntare su temi legati
alla cultura scientifica e alle strutture dell'economia, al classico
su quelli più vicini alla produzione culturale e artistica,
e così via dicendo.
A prescindere, comunque, dalla configurazione che avrà il quinto
anno del liceo, è da chiarire qui un punto, dal quale ancora
una volta tutti dicono di voler partire, ma dal quale non si traggono
poi le dovute conseguenze. Il punto è che non è possibile
insegnare tutta la storia, per cui è inevitabile una selezione:
selezione che spesso viene fatta meccanicamente, sulla base del tempo
disponibile, per cui si studia fino ad un certo punto del programma
e del libro di testo, lasciando poi al docente dell'anno successivo
la responsabilità di decidere se riprendere il discorso nel
punto in cui si è interrotto l'anno prima o far finta di niente
e svolgere il solo programma di sua competenza, con le conseguenze
che è possibile immaginare ai fini della completezza della
preparazione degli studenti. La selezione è invece un'operazione
assai delicata, da fare nell'ambito della programmazione e quindi
della responsabilità del docente, il quale, nel perseguimento
delle finalità dell'insegnamento della storia, deve essere
libero di costruire il percorso da lui ritenuto più adatto
al luogo, al tempo e, nel caso della scuola secondaria, al tipo di
liceo in cui opera, guidando gli studenti ad andare su e giù
per il manuale, smontandolo e rimontandolo o integrandolo con altri
testi, ma mostrando nello stesso tempo che tutto quello che riguarda
l'uomo è terribilmente complesso e che il punto di vista scelto
è solo uno dei tanti possibili.
A questa perdurante utilità del manuale anche in un insegnamento
di tipo nuovo è da aggiungere anche un'altra considerazione.
Molti studenti non leggeranno o non porteranno più a casa libri
di storia, per cui il vecchio manuale del liceo resterà l'unico
strumento per recuperare o approfondire, per i motivi più vari,
nozioni di storia, specie se esso si lega al ricordo di qualche argomento
di particolare interesse in riferimento alla storia locale o a problemi
di attualità. Per non parlare poi della possibilità
che esso offre, come qualche volta avviene, di far nascere l'interesse
per la storia nonostante l'incapacità del docente di stimolarlo.
Il problema diventa allora quello della qualità dei manuali,
che è naturalmente anch'essa molto varia, al pari di quella
dei docenti, anche se purtroppo negli ultimi tempi tendono a somigliarsi
sempre di più, e non solo nella veste editoriale. All'origine
del fenomeno c'è la convergenza di due fattori che influenzano
gli autori, i quali oggi per fortuna sono tanti (tra essi mi ritrovo
anch'io) e non più i tre o quattro che nel passato si contendevano
il gradimento dei docenti sulla base di considerazioni legate non
solo all'efficacia didattica e alla chiarezza espositiva, ma anche
alla loro caratterizzazione ideologica: da una parte gli editori,
abituati a scrutarsi a vicenda, i quali premevano nel passato per
far crescere il numero delle pagine, inserendo illustrazioni (non
sempre pertinenti), schemi, box, riquadri, che spesso confondono gli
occhi prima ancora della mente del lettore, mentre oggi cercano di
farle diminuire, dall'altra i docenti, che in larga maggioranza sollecitano
testi dalla scrittura sempre più semplice, adducendo come motivo
la scarsa capacità di leggere dei giovani di oggi, e che presumibilmente
non si metteranno alla ricerca di prodotti della storia esperta per
organizzare moduli originali. La soluzione sarebbe data dall'offerta
di una maggiore varietà di prodotti: da una parte manuali agili,
che siano poco più che prontuari a disposizione di classi che
sotto la guida di docenti volenterosi vogliano approfondire determinate
tematiche servendosi contemporaneamente di altri testi, dall'altra
manuali più complessi e flessibili, utilizzabili dal docente,
con un minimo di impegno, per la costruzione di percorsi tematici
ora di taglio prevalentemente economico-sociale, ora politico, ora
religioso.
Si ritorna così, ancora una volta, alla figura del docente:
una figura complessa, posta com'è al punto di incrocio di diverse
esigenze e competenze. A lui si richiede non solo la conoscenza della
psicologia, della disciplina da insegnare e della metodologia didattica,
ma anche la consapevolezza dell'importanza e della delicatezza del
suo ruolo nonché in alcune realtà difficili, purtroppo
presenti in tante aree, e non sempre le più povere, del nostro
paese, la disponibilità a fare il sociologo e l'assistente
sociale, senza però che a questo corrisponda una adeguata gratificazione
sul piano economico e del prestigio sociale. Ma per il docente di
storia c'è un problema in più, che è specifico
di questa disciplina. Il suo insegnamento, diversamente da quello
del collega che insegna la matematica, la ragioneria o una lingua
straniera, può essere efficace, e quindi contribuire a far
sviluppare negli allievi lo spirito critico, solo se egli vive intensamente
il proprio tempo ed è animato da una passione autentica per
la dimensione umana nel suo complesso, la sola in grado di metterlo
nelle condizioni di trarre fuori dal magazzino immenso della storia
e del nostro presente, che si fa storia con una velocità impressionante,
materiali e spunti per organizzare percorsi all'interno del manuale
o per costruirne di completamente nuovi, attingendo ad altri testi
e ispirandosi ai moduli creati dai didatti della storia e dai loro
colleghi più esperti. Creiamo allora le condizioni per farlo
lavorare bene, ma lasciamolo veramente libero e non cerchiamo di "modernizzarlo"
ad ogni costo e in una sola direzione.
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