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Didattica> Fonti > Stato e società nell'ancien régime - Prefazione

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Stato e società nell'ancien régime

a cura di Angelo Torre

Tratto da Angelo Torre, Stato e società nell'ancien régime, Loescher (Documenti della Storia), Torino 1983
(riprodotto con il permesso dell'autore e dell'editore)

© 1983-2006 – Angelo Torre

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Prefazione

Questo volume prende origine da una serie di suggestioni intorno ai possibili elementi di una storia sociale dello stato che mi pare necessario rendere esplicite prima di far addentrare il lettore in uno sviluppo tematico a prima vista molto complesso. La prima preoccupazione che mi ha mosso è stata la necessità di non considerare i percorsi di formazione degli apparati statali moderni esauriti nelle dottrine che li hanno incarnati, o meglio nei corpi dottrinali che a essi, oggi, sembrano presiedere. Ho perciò preferito occuparmi di quegli elementi «politici» - quindi concreti intrecci di interessi e di dinamiche tra gruppi nelle diverse situazioni e nei diversi periodi - che hanno plasmato uno dei processi decisivi e più complessi della storia del nostro continente. Questa esigenza ha determinato una precisa scelta espositiva: ho infatti tentato di delineare gli elementi di formazione degli apparati statali dell'ancien régime - il corpo di istituzioni che regolano la vita dell'amministrazione nel periodo moderno - senza isolarli dallo sviluppo storico concreto; è una scissione questa che troppo spesso contraddistingue e limita pesantemente analoghi tentativi illustrativi. Da questo punto di vista il risultato è solo parzialmente soddisfacente, giacché, per non appesantire il testo, sono stato talvolta costretto a ricorrere ad allusioni a elementi di storia generale che possono rendere faticosa la lettura nel loro ripetuto rinvio a «fatti», date e scansioni da rintracciarsi in qualsiasi buon manuale di scuola media superiore.

Una seconda esigenza è scaturita dall'insoddisfazione per la parzialità dell'immagine dello stato prodotta dalla settorializzazione delle prospettive interpretative: dalla distanza crescente tra quanti privilegiano il piano dello sviluppo istituzionale o del regime costituzionale, e quanti assumono come punto di partenza imprescindibile gli sviluppi economici dei territori in cui l'epoca moderna vede sorgere formazioni politiche statali. Entrambe queste tendenze, infatti, presuppongono una gerarchia implicita tra i diversi esiti della formazione dello stato, fondata sulla più o meno grande approssimazione delle diverse situazioni esaminate a «tipi» costituzionali (la monarchia costituzionale, quella assoluta) o a «tipi» economico-sociali (la creazione di una «borghesia», ecc.) o in ogni caso a un percorso che si ritiene dato, a un modello di rapporti tra economia e società che si ritiene definito una volta per tutte. Non sarebbe stato utile, ritengo, risolvere quest'insoddisfazione in termini di storie nazionali separate e isolate, che suggerirebbero percorsi irripetibili e così peculiari da non permettere alcun reciproco accostamento.

Ho cercato invece di esplicitare il più possibile elementi di comparazione, di mettere costantemente in evidenza gli elementi caratterizzanti e distintivi delle diverse formazioni politiche senza tuttavia dimenticare i problemi comuni cui i singoli quadri istituzionali intesero offrire una risposta e una parziale soluzione. Il mio sforzo è stato perciò quello di sottolineare la presenza, nella formazione degli stati moderni, di variabili significative, evitando l'uso aprioristico di concetti implicitamente interpretativi o valutativi, quali dittatura, democrazia o regime costituzionale, o di nozioni che risultassero sovradeterminate, quali sistema» o «capitalismo», rispetto alla concreta sostanza delle formazioni politiche considerate.

Un'impostazione di questo genere ha comportato scelte metodologiche di cui credo necessario mettere in luce i presupposti. Il primo e il più evidente è quello dell'ambito di analisi: se la storia dello stato non si esaurisce, ad esempio, nella storia dell'amministrazione, allora è necessario allargare il campo di lettura a protagonisti, elementi e sedi anche lontane dai centri promotori e trainanti delle curiae regis o del personale immediato all'intorno del sovrano. Questo al fine di non ridurre la formazione degli stati nazionali a un progetto, o a una serie di progetti che le attribuiscano un anacronistico carattere di ineluttabilità e di intenzionalità. Con questo non intendo affermare che il fenomeno possa esser considerato soltanto dal punto di vista dei gruppi sociali che avrebbero subìto tale formazione, come è stato proposto da quanti hanno letto tappe e fasi della costruzione dello stato solo attraverso le reazioni di questo o quel gruppo specifico. Vedremo infatti come i fenomeni di rivolta, nelle città come nelle campagne, siano da cogliere nella costante interdipendenza, nel continuo rapporto di interazione tra istanze del governo centrale e modi di distribuzione periferica del potere. Per usare un'immagine tratta dalla letteratura antropologica, ci si trova di fronte alla relazione tra una società - o un ambito - che per la sua forza e vastità tenta di inglobare, o per meglio dire «incapsulare» ambiti sociali più ristretti, avvolgendone le tensioni e le istanze politiche in una rete più vasta di dominio.

Una simile osservazione ha reso perciò necessario non considerare «stato» e «società» come termini irriducibili, come poli subordinati a logiche e a comportamenti antitetici, ma piuttosto come elementi governati da un costante rapporto di influenza reciproca. Soltanto così è possibile non attribuire in modo definitivo i caratteri e i crismi della «modernità» e della «tradizione» a uno solo dei poli della relazione, nel senso almeno che la modernità non si trova dislocata una volta per tutte nelle innovazioni di governanti irriducibilmente opposti alle popolazioni governate. Una simile indicazione si ricava del resto da quanti hanno finora tentato di valutare in termini sociali - e non storico-giuridici - il rapporto tra gli apparati statali dell'epoca moderna e i gruppi di popolazioni soggette, incluse nelle rispettive aree di dominio. Così, è stato giustamente sottolineato come nella seconda metà del Cinquecento l'autorità statale sia costantemente «mediata» sul piano locale da gruppi sociali specifici, che se ne fanno rappresentanti e depositari in cambio di un tornaconto tangibile ma cangiante, rappresentato da obiettivi di prestigio, dal godimento di elementi di dominio, dall'appropriazione di quote della ricchezza sociale. A ciò si deve aggiungere un aspetto di estrema rilevanza, spesso trascurato da quanti esprimono l'azione dei centri del potere sovrano esclusivamente in termini di sforzo verso la modernità. Durante il periodo moderno i rapporti che legano i gruppi e le società incapsulate al centro del potere restano caratterizzati da una marcata eterogeneità: secondo taluni autori, l'evo moderno non vede certo esaurirsi la forza vincolante dei «contratti» tra singoli segmenti di popolazioni soggette e il sovrano. Province, intere regioni, oppure singole città o villaggi, oppure ancora segmenti specifici del corpo sociale, quali corporazioni di mestiere, gruppi di status, colgono il proprio rapporto con il sovrano all'interno di un patto preciso, scritto e statuito, che limita le reciproche sfere di dominio e di subordinazione. Di più, per i singoli segmenti di popolazione soggetta ciò costituisce un'autentica definizione delle proprie «libertà», capace di vincolare le possibilità di azione dell'autorità sovrana.

I due esempi riportati, se hanno il merito di ribadire la natura mediata dell'autorità centrale nella periferia e la vitalità dei vincoli contrattuali tra sovrano e popolazioni soggette, hanno altresì il pregio di ricordarci come il problema del rapporto tra «stato» e «società» (da intendersi comunque e sempre al plurale) vada più correttamente inteso come un problema di comunicazione tra un potere sovrano dislocato centralmente, ma solo con discontinuità identificabile con precisi orientamenti burocratici e un insieme di societa incapsulate a esso variamente collegate. Intesa in questo modo la formazione dello stato si presenta come una serie - cangiante nel tempo e nello spazio - di tentativi, da parte degli apparati e degli ordinamenti statali, di integrazione politica di territori dispersi e caratterizzati da forti originalità istituzionali, economiche e sociali: in altri termini la formazione dello stato si presenta come un processo nel quale sono comunque coinvolti i rappresentanti del potere centrale, i gruppi dirigenti locali o periferici, e le popolazioni soggette. A ben vedere, si tratta di un processo nel quale il termine mediano, le élites locali - intese qui in senso descrittivo come l'insieme dei detentori locali del potere, del prestigio e delle risorse strategiche - costituiscono il piano d'analisi più interessante e dinamico. In primo luogo non va dimenticato come il modo in cui le élites locali si saldano con la storia dello stato non sia costante, ma appaia suscettibile di sensibili variazioni nel tempo e nello spazio. Inoltre ci appaiono lontane sia da quell'idea di «rivoluzione» o di «progresso» con cui tanta parte della storiografia idealistica ci ha abituati a identificarle, sia dall'adesione a temi quali la «lealtà nazionale» o la «patria» intese nell'accezione ereditata dalla cultura romantico-liberale. Neppure si prestano a esser identificate - tantomeno nei loro ambiti locali di dominio - con una classe sociale. Sono piuttosto costituite dai membri di famiglie localmente preminenti che giungono a fungere da intermediari tra governo centrale e corpi sociali incapsulati con i quali hanno rapporti diretti e personali fondati sull'onore, sul rango e sulla reputazione, nei quali traducono forme specifiche di dominio economico e sociale. Infatti le élites in questione mostrano nel periodo preso in considerazione una duplice ma insostituibile funzione: mentre da un lato fungono da interlocutori del potere centrale, dall'altro si propongono quali garanti dell'ordine in virtù della propria posizione all'interno del sistema locale di stratificazione sociale. Di qui deriva il loro ruolo cruciale nel processo di integrazione di specifiche società incapsulate entro l'ambito del potere statale.

In questa prospettiva, inoltre, la saldatura tra organizzazione statale dell'autorità e le forme della distribuzione locale del potere non avviene tanto - o quantomeno non principalmente - attraverso adesioni ideologiche o attraverso aggregazioni economico-sociali, quanto attraverso specifiche configurazioni sociali formate da individui e caratterizzate dal fatto di conoscere sviluppi nel tempo. Sviluppi che, occorre ribadire, appaiono determinati da dinamiche interne legate al controllo delle tensioni sociali locali, che conoscono il successo quando e fintantoché conseguono la capacità di controllare le comunicazioni tra singole «comunità», o ambiti di potere e di preminenza locali, e il mondo esterno.

Espressa in questi termini la nozione di élite appare suscettibile di una definizione essenzialmente dinamica, poiché i fattori cruciali che ne sanciscono l'appartenenza non vanno soltanto ricercati nello status, nella ricchezza materiale o nella stessa prerogativa istituzionale di rappresentare localmente il potere centrale. Piuttosto, un'élite locale si connota per le sue capacità di controllo delle tensioni. È in questo senso, ad esempio, che si può cogliere nella sua luce più viva il ruolo della nobiltà. Da un lato infatti essa incarna una sorta di clientelismo istituzionale, che le viene demandato dalla gerarchia sociale formale, strutturata per «ordini», e attraverso il quale essa è in grado di garantire protezioni di vario genere, e, più in generale, di esercitare il patronaggio ufficiale su tutta una parte delle cariche locali. Da un altro punto di vista, tuttavia, essa si vede estromessa da uffici dall'importanza crescente, quali quelli dell'amministrazione fiscale dello stato: è così comprensibile che alla nobiltà si ricorra, ed essa entri perciò nell'arena politica, nelle situazioni di sensibile deterioramento della pace sociale, poiché in tali momenti appunto essa sa far valere i propri ruoli tradizionali. Ed è altrettanto comprensibile perciò come il conflitto con i gruppi emergenti della burocrazia - in particolare quella venale - costituisca il dato di fondo delle ripercussioni della costruzione dell'apparato statale, nel senso che in esso si esprimono, non solo differenti «culture», ma anche modi diversi di controllo dell'ordine sociale: in una parola, diverse funzioni politiche che solo attraverso una nozione dinamica di élite risultano pienamente comprensibili.

Una simile prospettiva consente infine di cogliere nella costruzione dello stato e del suo apparato non una sequenza di stati di equilibrio sociale, bensì un processo progressivamente squilibrante. La costruzione dello stato non si compone infatti di movimenti a senso unico, della pura e semplice sottrazione di risorse economiche e di dominio da parte del potere centrale a una periferia sempre più impoverita e marginale. In realtà il potere centrale traduce una parte rilevante della propria legittimità nell'esercizio della funzione di redistribuzione periferica delle risorse e della ricchezza sociale sottratte ai diversi ambiti del suo potere. Questo processo è evidente nel caso della fiscalità: se infatti la costruzione dello stato consiste nella creazione di un sistema di appropriazione del surplus prodotto nelle campagne da parte di centri di potere spesso lontani, ciò pone problemi politici di non indifferente portata, giacché costringe alla monetizzazione del prodotto economie rurali «chiuse» o quantomeno restie a presentarsi sul mercato se non dietro spinte o bisogni eccezionali. Una simile appropriazione, tuttavia, possiede un risvolto redistribuitivo cui forse non si è ancora dedicata la dovuta attenzione. Il surplus raccolto dagli «uomini del re» consente infatti la destinazione di quote anche estremamente rilevanti a specifici settori della periferia, in particolare a quanti a qualsiasi titolo appaiano legati all'amministrazione regia: ufficiali di giustizia, amministratori, personale delle finanze, ufficiali dell'esercito, rappresentano i destinatari di fette più o meno consistenti di surplus.

Si tratta cioè di una redistribuzione selettiva delle risorse che, come vedremo, non solo favorisce le città rispetto alle campagne, ma - più in generale - crea un apparato amministrativo che accentua e aggrava la stratificazione sociale. Lo stato infatti, attraverso la sua ossatura amministrativa, offre localmente «risorse» politiche - di cui non sfuggono le implicazioni sul piano dei vantaggi materiali - facile e ovvia preda delle famiglie preminenti. Sarebbe tuttavia semplicistico considerare la presenza periferica dello stato come un semplice prolungamento della stratificazione sociale locale. In realtà, creando una burocrazia esso crea una gerarchia nuova che si affianca in modo potenzialmente conflittuale con quelle preesistenti: lo stato funge perciò da fattore scatenante e catalizzatore della competizione politica locale, genera o intensifica specifici conflitti all'interno dei vari settori dell'élite.

Acquistano così estrema rilevanza i modi e i tempi dell'espansione nelle situazioni periferiche dei diversi modelli di ossatura amministrativa: perciò sono i loro mutamenti a costituire le scansioni intorno alle quali si snoda la periodizzazione adottata in questo volume. Esso parte infatti dal riconoscimento di difformi strutture delle società rurali nell'Occidente e nell'Oriente europeo all'indomani della crisi del secolo XV, nelle quali il dominio viene esercitato da élites diverse a seconda delle aree considerate, che hanno tuttavia in comune il fatto di appartenere a lignaggi aristocratici da lungo tempo in competizione con i centri di potere sovrano. Nella seconda sezione si sottolinea invece l'importanza di un periodo «corto» - la prima metà del Cinquecento - nel quale emergono gli intrecci tra due fattori cruciali: la presenza di vasti conflitti di portata continentale e la conseguente necessità di un'intensificazione della pressione fiscale sulle popolazioni soggette. Estrema rilevanza assumono in questo contesto le lacerazioni interne alle aristocrazie europee (fino ad allora principali detentrici del potere locale) nell'età della Riforma protestante, giacché esse paiono aver determinato diversi gradi di accettazione - e di reazione - a tale rafforzamento del dominio principesco. Il diverso modo con cui lo stato moderno - i «diversi» stati moderni - risolve entrambi questi problemi costituisce a sua volta un fattore capace di intervenire con varia forza su un processo di mutamento sociale dal respiro più lungo: la crisi dell'aristocrazia feudale e il ricambio delle élites sociali reso necessario dallo stesso sviluppo degli apparati statali. Ne scaturisce perciò un lungo periodo di crisi politica e sociale dagli esiti difformi e divergenti tra le aree e gli apparati statali presi in esame, che costituisce l'oggetto della terza sezione. Tali esiti costituiscono infine - come illustra la quarta sezione - la matrice di una ristrutturazione degli apparati che caratterizza un periodo di crisi economica e sociale come il secondo Seicento. Sono le ripercussioni di tale rinnovamento ad attribuire una diversa capacità agli stati europei di affrontare e superare la crisi.

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UpUltimo aggiornamento: 01/04/2006